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La Sfinge

Parla, viandante
che per certo non si intratterrà a lungo,
ma pensa assai bene,
che il verbo vacilla
se il cuore trattiene.

Dimmi chi sei
cos’è la tua vita
prima che il tempo la renda svanita.
Ma ti avverto,
pensa a come rivolgerti.
Io vedo chi mente,
chi tace
chi fugge
e al loro silenzio
rispondo con rughe.

Prendo forza dalla mia criniera fluente,
alle carezze di donna
devo il mio dolce viso,
e alle mie ali titaniche
la libertà.

Eppure sono stata inviata come una punizione,
che divora e stermina.
Mi hanno dato le braccia del vento,
ma rimango qui,
inchiodata all’attesa,
ferma sul ciglio del mondo,
incapace di abbandonare le mie domande.

Chi mi teme non sa
che non è il mio artiglio a uccidere,
ma il vuoto che si allarga
dentro al petto
di chi non sa rispondermi.

La bestia che incalza
che incute terrore,
che vive del nulla
che uccide il timore.

Ma poi arriva Edipo.
Non vacilla
non prega
non mente.
Non alza la spada,
non cerca di sfuggire.
Mi guarda come se sapesse già chi sono,
e non si spaventa.
Riempie il mio pozzo profondo
di risposte.

Io,
che ho sempre avuto parole per incatenare,
ora non ne ho per salvarmi.
Per la prima volta non combatto
non sfido
non resisto.

Mi frantumo nel vento,
svanisco nel niente,
trafitta dal silenzio
che ora è incandescente.

Nel sapere mi spengo,
dissolta
tradita
non più enigma
né sfida, né vita.
Disarmata non dalla forza e dall’acciaio,
ma dalla tenera comprensione.


Questa poesia reinterpreta il mito in chiave intima e contemporanea, dando voce ad una Sfinge che non è più solo mostro o ostacolo, ma creatura ferma sul confine tra umano e divino, tra parola e silenzio. È la guardiana dell’identità, che non punisce con la violenza, ma col vuoto che si apre in chi non sa rispondere alla domanda più antica: chi sei?

La Sfinge parla con gravità e malinconia, consapevole del suo destino: porre enigmi e divorare chi fallisce. Eppure, sotto l’apparenza titanica, svela una natura profondamente femminile, arcaica e condannata all'attesa. Le sue ali sono libertà negata, la sua voce un potere sterile. Vive nella soglia, inchiodata al ruolo di enigma vivente e, nella ripetizione di quella domanda, si consuma.

Quando arriva Edipo, il mito si capovolge: l’eroe non combatte, non fugge, non mente. Guarda, ascolta, comprende. E in quel gesto, la Sfinge, che ha sempre usato le parole per incatenare, viene disarmata dalla verità. La sua fine non è violenta: è una dissoluzione dolce e tragica, trafitta dalla risposta che libera entrambi.

In questa versione non è sconfitta: è trasformata. Non muore per mano di un uomo, ma per l'arrivo di una coscienza capace di vedere il cuore del mistero, senza temerlo.
È un’ode potente alla conoscenza come atto d’amore, e alla fine della paura quando finalmente qualcuno risponde con verità e comprensione.

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